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Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign)

Campagna abiti puliti

Le campagne a sostegno della moda sostenibile sono cruciali. Primo, perché sono portate avanti da ONG del calibro di Greenpeace. Secondo, perché è l’unico modo (al momento) per sensibilizzare l’opinione pubblica e far pressione sulle grandi multinazionali. Abiti Puliti – sezione italiana della Clean Clothes Campaign – è una delle iniziative in tal senso più importanti e conosciute, che si propone di migliorare le condizioni di lavoro nell’ambito tessile. Molti ricorderanno il crollo del Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, avvenuto il 24 aprile 2013: costò la vita a 1.219 persone, la maggior parte delle quali erano lavoratori tessili. È considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia.

Le fabbriche che si trovavano all’interno dell’edificio realizzavano abbigliamento per marchi come Benetton, Auchan, Primark, Camaïeu, Premier Clothing, El Cortes Inglés e molti altri brand poco conosciuti (o non commercializzati) in Italia. Le immagini di quel terribile incidente fecero il giro del mondo, le etichette degli abiti con i differenti nomi di marchi vennero ritrovati sotto le macerie e lo scandalo andò oltre l’oggettiva responsabilità di chi costruì l’edificio. Il crollo del Rana Plaza ha confermato le voci che andavano ricorrendosi da anni sulle produzioni dei grandi marchi delegate all’estero: lavoro sotto pagato, manodopera sfruttata, condizioni precarie per i lavoratori del sud est asiatico.

Il 24 aprile è così diventato simbolicamente la linea di demarcazione tra due epoche, quella del consumismo sfrenato, del fast fashion a ogni costo e quello di un consumo più critico. Non a caso, il 24 aprile si celebra in tutto il mondo il Fashion Revolution Day, la giornata a sostegno dello sviluppo e del miglioramento delle condizioni lavorative di chi è impiegato nel settore moda.

Ma torniamo alla campagna Abiti Puliti. Come si legge sul sito ufficiale, «opera per il miglioramento delle condiioni di lavoro e il rafforzamento dei lavoratori nell’industria tessile globale. Pone al centro della sua attività la sensibilizzazione e la mobilitazione dei consumatori, la pressione verso le imprese e i governi. Offre solidarietà e sostegno diretto ai lavoratori che lottano per i loro diritti e chiedono migliori condizioni di vita e di lavoro». In altre parole, tramite partnership e iniziative ad hoc, si propone di sostenere i diritti dei lavoratori. Perché nel 2014 esistono ancora salari che non raggiungono nemmeno gli 80 dollari al mese. E non parliamo solo di lavoratori del sud-est asiatico, ma anche della civilizzata Europa, dove in un paese come la Turchia un operaio tessile vive con un salario ben al di sotto degli standard. Da un recente report pubblicato da Abiti Puliti, si legge che «in tutti i paesi oggetto di indagine è stata rilevata una differenza enorme tra il salario minimo legale e il salario minimo dignitoso legale. La divaricazione tende ad essere persino più marcata nei paesi europei a basso costo che non nei paesi asiatici». Non mi addentrerò nel merito del report, che è approfondito ed articolato. Mi premeva far sapere che esistono campagne e iniziative concrete perché questo buco nero del settore moda venga corretto, che ognuno di noi può far qualcosa nel suo piccolo. Mi premeva scrivere di una moda alternativa, che è poi quella che sta alla base degli abiti che la maggior parte di noi acquista. Perché la moda è bella, ma non sempre è sinonimo di tendenza e frivolezza.

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