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Upcycling, cos’è e come funziona

In inglese upcycling, in italiano riuso: come lo si voglia chiamare, è uno dei fondamenti dell’abbigliamento sostenibile. Il fatto che si utilizzi un inglesismo piuttosto che il suo nome in italiano è puro vezzo: usare una parola anglosassone fa sempre più figo. Riutilizzo o riuso, in effetti, nella lingua italiana sono parole che hanno da sempre un’accezione negativa.

Se poi parliamo di upcycling nell’abbigliamento, dobbiamo confrontarci col fatto che per secoli il riuso di vestiti è stato uno stigma, un motivo di vergogna, che rispecchiava uno stato di indigenza. Fino a pochi decenni fa, era considerato imbarazzante, per non dire umiliante, vestirsi con indumenti usati o riadattati. Io stessa ho provato sulla mia pelle quella sensazione, che era un riflesso della vergogna provata da mia madre nel non potersi permettersi vestiti alla moda per la figlia.

Ancora adesso, ogni volta che compro abiti usati per i miei bambini, mia mamma viene mossa da un mix compassione e indignazione che la porta a comprare l’equivalente di vestiti nuovi ai suoi nipoti per compensare. Come se dovesse in qualche modo riparare ai miei errori, come se non potesse tollerare che i suoi nipoti vadano in giro con robe usate. E lo posso pure capire questo senso di rivalsa: quando ero piccola mi vestivo con gli scarti di parenti e conoscenti o con il bomber tarocco perché i miei non potevano permettersi di comprarmi quello originale. Adesso che mia mamma può permettersi più o meno quello che vuole, perché mai dovrebbe acquistare abiti usati?

L’ironia della sorte vuole che oggi l’upcycling, nell’abbigliamento – ma non solo – sia una necessità, non (solo) legata a mancanze economiche come lo era per le generazioni passate. Lo è soprattutto perché non possiamo più permetterci di convivere con il modello compra-accumula-butta. Siamo letteralmente sommersi dai vestiti, le discariche di tutto il mondo sono al collasso e stiamo mangiando sushi con all’interno microplastiche che derivano per lo più dai lavaggi dei nostri vestiti di poliestere (conosciuto anche come plastica).

In altre parole, nel giro di una generazione, il paradigma si è ribaltato: la moda del riuso è la nuova “normalità”. Senza contare che il second hand e l’upcycling non sono mai stati così di moda come negli ultimi anni.

Upcycling vuol dire abbigliamento usato?

Anche, non solo. Nei paesi anglosassoni l’abbigliamento usato viene chiamato second hand, mentre per upclycling si intende il capo di abbigliamento che viene fatto rivivere tramite modifiche e/o aggiunte sartoriali. Facciamo un esempio: una camicia bianca già indossata e venduta così com’è è considerata second hand. Una camicia bianca a cui viene modificato il colletto o rattoppato un buco con un ricamo è considerata figlia dell’upcycling. L’obiettivo del riuso è quello di trovare tutte le strade possibili per dare una nuova vita ai capi, di allungarne la durata, a costo di reinventare e stravolgere completamente il capo stesso.

Ne parla in modo approfondito Orsola de Castro, fondatrice del movimento globale Fashion Revolution, nel suo libro I vestiti che ami vivono a lungo:

“Manutenzione” è una parola che non associamo più all’abbigliamento, eppure è il nodo del problema e anche un modo per definire in parte la soluzione, cioè per ristabilire l’equilibrio tra consumo e smaltimento.

Quello che conta, secondo Orsola, non è tanto quale capo fai riparare o modificare, ma l’atteggiamento: il valore di un indumento si misura dal ruolo che ha nella nostra vita, non dal cartellino del prezzo o dalla marca. Certo, tra fare un rattoppo a una t-shirt di cotone low cost e farlo a una camicia di seta vintage c’è una bella differenza, ma se per me il valore affettivo di quella maglietta supera di gran lunga il valore assoluto del capo, allora è mio dovere prendermene cura fino a che non sarà lisa.

Differenze tra upcycling e recycling

A usare tutti questi inglesismi ci si può confondere. Upcycling è sinonimo di riuso e riutilizzo, non di riciclo. Il termine inglese che sta a indicare l’ecosistema di un indumento riciclato è recycling. La differenza è sostanziale: l’upcycling fa rivivere il capo senza snaturarne la sostanza, ovvero le fibre, mentre il recycling è il processo che porta un indumento ad essere riportato allo stato iniziale del suo ciclo di vita. Anche qui facciamo un esempio: un maglione di lana usato e rattoppato in modo creativo è frutto di un processo di upcycling; un maglione di lana prodotto con fibre di lana rigenerate è figlio del recycling.

Vi starete chiedendo quale sia il processo più sostenibile. Per saperlo con certezza matematica bisognerebbe calcolare per ogni singolo capo o processo l’LCA, l’analisi del ciclo di vita. Come sempre, quando si parla di un tema complesso come la moda sostenibile, non c’è mai una risposta semplice. In generale, possiamo affermare che un capo rinnovato con l’intervento di una sarta locale e reimmesso sul mercato nel territorio italiano è senz’altro più sostenibile di un capo in fibre riciclate acquistato presso una grande catena internazionale. A volte la sostenibilità è solo questione di buon senso.

Come funziona l’upcycling?

L’upcycling significa ricorrere ad ago e filo, toppe, strass, spille, applicazioni, ricami e tutto ciò che la fantasia permette di applicare ad un capo. Vuol dire allungare, recuperare, rammendare, cucire insieme pezzi diversi. Fino a non molto tempo fa in ogni casa c’era una macchina da cucire e mettere mano a orli e cuciture era la normalità.

Nella mia famiglia, come in molte altre, la tradizione del cucito si tramanda da generazioni: mia nonna lavorava a maglia, mia zia era un’abile ricamatrice e mia mamma iniziò a lavorare come sarta da giovanissima. In realtà fu la prima a uscire dagli schemi per dedicarsi alla carriera di infermiera. Io mi sono fermata al punto croce e ai primi rudimenti della maglia: per tutto il resto c’è mia mamma, che non ha mai abbandonata la passione per il cucito.

Va detto che, sebbene i corsi di cucito stiano tornando in voga, non tutti hanno la voglia, la manualità o il tempo per dedicarsi a quest’arte. Sarebbe già qualcosa imparare a rattoppare i buchi e ad attaccare i bottoni, giusto per sopravvivenza. In alternativa c’è sempre la figura mitologica della sarta, che dovrebbe essere un punto di riferimento costante per la manuntezione del proprio armadio.

Di sarte ce ne sono in ogni città e paese, si può anche scegliere per comodità il servizio sartoriale della propria lavanderia, affidarsi a quelle cinesi, abilissime ed economiche, oppure a sarte specializzate in grado di confezionare da zero un abito. Alla sarta si può chiedere di tutto: di ricamare attorno al buco di un maglione, di creare delle toppe da una vecchia camicia, di creare dei dischetti struccanti da un vecchio asciugamano. Sarà ben felice di mettere al tuo servizio la sua creatività per un progetto di recupero.

Ci sono poi delle sarte 2.0 che stanno rivoluzionando il mondo dell’upcycling: sono ragazze e donne che utilizzano i social e le piattaforme digitali di second hand per offrire servizi su misura: si manda loro il capo da modificare con le indicazioni e si apsetta che ritorni trasformato. Esistono anche realtà che gestiscono reti di upcyclers, come Atelier Riforma, che sullo shop online ha una selezione di capi modificati e “riformati”. Per trovarli sui social basta usare l’hashtag #upcycling.

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